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Biocarburanti di terza generazione

28 Giu

Sicuramente, tutti avrete sentito parlare di biocarburanti. Come e’ noto, la domanda mondiale di petrolio e derivati continua a crescere nel tempo, causando, tra le altre cose, un aumento del prezzo del greggio. Uno dei problemi principali per quanto riguarda il consumo di petrolio, e’ la crescita sempre piu’ accentuata di quelle che una volta venivano chiamate economie emergenti. Dico tra quelle che “venivano chiamate” economie emergenti perche’, come noto, si tratta ormai di economie gia’ belle che solide, si pensi ad esempio alla Cina e all’India, e dove l’aumentato benessere, crea una richiesta di materie prime sempre crescente da parte della popolazione. In questo scenario, le fonti fossili hanno una vita sempre piu’ corta e, come sappiamo bene, dobbiamo gia’ fare i conti con quello che succedera’ nell’era, attualmente ancora inimmaginabile, del dopo petrolio.

In questo scenario, gia’ da qualche anno, si e’ iniziato a parlare di biocarburanti. Forse non tutti sanno che siamo gia’ arrivati alla seconda generazione di questi prodotti. Nella prima generazione si parlava di produzione da materiale vegetale, mentre nella seconda generazione si e’ studiata in dettaglio la produzione di carburanti a partire dagli scarti alimentari.

Questi studi hanno mostrato delle problematiche molto complesse e difficilmente risolvibili. Nella prima generazione, sicuramente avrete sentito parlare dell’olio di colza. Uno dei problemi principali in questo caso e’ l’utilizzo di vaste aree di terreno per la produzione di queste piante. Necessariamente, il ricorso a queste colture, sottrae terreno alla produzione alimentare. Ora, anche quello cibo per la popolazione mondiale sempre crescente e’ un problema serio e su cui, prima o poi, dovremo ragionare per trovare una soluzione. Rubare terreno alla produzione alimentare per piantare colza, crea dunque una competizione tra due problemi fondamentali per la civilta’ umana.

Per quanto riguarda invece la seconda generazione, il problema principale in questo caso e’ dato dai costi di produzione di energia che mostrano tutt’ora valori troppo elevati se confrontati con quelli dei combustibili fossili.

A questo punto, la terza generazione di combustibili fossili, mira a trovare soluzioni alternative per la produzione di biocarburanti utilizzando materie prime facili da reperire, economiche e ad alto rendimento in termini di carburante.

Il settore di ricerca principale nei biocarburanti di terza generazione e’ quello che vuole impiegare microalghe.

Cosa sono le microalghe?

Si tratta di normalissime specie vegetali che crescono spontaneamente nelle acque reflue. Un eventuale utilizzo di queste alghe consentirebbe dunque non solo di risolvere il problema dei carburanti, ma anche di ridurre il carico inquinante nelle acque di scarto.

Ovviamente, in un’ottica di produzione di massa, si pensa di creare dei veri e propri allevamenti di alghe. In questo caso, le uniche cose di cui c’e’ bisogno sono uno specchio d’acqua (cisterna, vasca, ecc) e della luce del sole per permettere la fotosintesi.

Le alghe in generale sono molto ricche di lipidi e proteine che le rendono ottimi candidati per la produzione di biodiesel e bioetanolo. Per darvi un’idea, il contenuto di grassi di queste sostanze e’ anche 30 volte superiore a quello delle comuni specie vegetali utilizzate nella produzione di biocombustibile (mais e colza in primis).

Come confronto numerico, vi riporto una tabella in cui viene mostrato non solo il contenuto lipidico di queste sostanze confrontate con le materie prime utilizzate nella prima e seconda generazione, ma anche il rendimento in termini di olii che e’ possibile ottenere:

Materia prima

Contenuto lipidico (% olio/s.s.)

Rendimento in olio
(L olio/ha)

Suolo utilizzato
(m2/kg biodiesel)

Resa in biodiesel
(kg biodiesel/ha)

Mais

4

172

66

152

Soia

18

446-636

18

562

Jatropha

28

741-1.892

15

656

Camelina

42

915

12

809

Colza

41

974

12

946

Girasole

40

1.070

11

1.156

Olio di palma

36

5.366-5.950

2

4.747

Microalghe (basso contenuto in olio)

30

58.700

0,2

51.927

Microalghe (medio contenuto in olio)

50

97.800

0,1

86.515

Microalghe (elevato contenuto in olio)

70

136.900

0,1

121.104

Anche per quanto riguarda l’emissione di CO2, i carburanti prodotti da alghe presentano valori molto piu’ bassi rispetto ai biocarburanti soliti:

Materia prima

Emissioni di CO2

Impiego di acqua

Superficie necessaria per soddisfare la domanda mondiale di petrolio

 

(gCO2eq/MJ)

(g/m2/g)

(106 ha)

Jatropha

56,7

3.000

2.600

Alga

3

16

50-400

Olio di palma

138,7

5.500

820

Colza

78,1

1.370

4.100

Soia

90,7

530

10.900

Le proprieta’ dei carburanti ottenuti tra le terza e le prime due generazioni e’ del tutto equivalente:

Proprietà

Biodiesel da alghe

Biodiesel da soia

Biodiesel da colza

Biodiesel da girasole

Diesel

Densità (kg/L)

0,864

0,884

0,882

0,860

0,838

Viscosità (mm2/s, cSt a 40 °C)

5,2

4

4,83

4,6

1,9-4,1

Flash point (°C)

115

131/178

155/180

183

75

Punto di solidificazione (°C)

-12

-4

-10,8

-7

-50/+10

Punto di intorbidamento (°C)

2

1

-4/-2

1

-17

Numero di cetano

52

45/51

53/56

49

40-55

PCI (MJ/kg)

41

37,8

37,2

38,9

42

Dunque, tutto risolto, basta iniziare a coltivare alghe per eliminare il problema delle risorse fossili. Purtroppo, non e’ propriamente cosi’.

Come anticipato, si tratta di ricerche attualmente in corso. Il problema principale dell’utilizzo di alghe e’, al solito, il costo. Allo stato attuale per ottenere 1 Kg di alghe servono circa 3.5 dollari. Questo prezzo e’ ancora troppo alto in confronto ai combustibili classici.

Come detto pero’, si tratta di studi ancora ad un livello quasi pioneristico. In tal senso, ci sono ancora molti “manici” che possono essere utilizzati per migliorare e ottimizzare il processo. Prima di tutto, i costi mostrati sono relativi ad una produzione su piccolissima scala. Nell’idea di un impianto dedicato, il costo per Kg di alghe potrebbe scendere tranquillmanete di un fattore 10, rendendolo paragonabile a quello dei combustibili fossili. Inoltre, esistono migliaia di specie di alghe che possono essere coltivate. In termini di resa, le alghe attualmente in studio potrebbero non essere le migliori per contenuto lipidico. Trovare soluzioni migliori equivale a migliorare il rendimento in produzione e dunque ad abbassare ancora il prezzo. Sempre in questo contesto, il ricorso all’ingegneria genetica potrebbe aiutare ad ottimizzare i processi di fotosintesi, aumentando notevolmente la produzione lipidica e dunque il rendimento nella produzione di olii combustibili.

Concludendo, gli studi sulla terza generazione di biocarburanti mirano all’utilizzo di alghe. Queste specie vegetali presentano un altissimo contenuto lipidico che le rende ottime candidate per la produzione di combustibili. Allo stato attuale, ripetiamo di ricerca pura e appena iniziata, i costi di produzione delle alghe sono ancora troppo elevati. Gli studi in corso mirano dunque all’ottimizzazione della produzione di queste nuove materie prime, oltre a migliorare il rendimento trovando, tra le migliaia disponibili, quelle a maggior contenuto lipidico. Sicuramente, una ricerca del genere merita attenzione. In un futuro piu’ o meno prossimo potrebbe rivelarsi fondamentale per la civilta’ umana.

 

Psicosi 2012. Le risposte della scienza”, un libro di divulgazione della scienza accessibile a tutti e scritto per tutti. Matteo Martini, Armando Curcio Editore.

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Anche il giorno e’ relativo …. se siete altrove

12 Giu

Pensandoci, chissa’ quante volte avremo detto “se ci fosse un giorno di 48 ore, riuscirei a fare tutto”. Proprio relativamente a questo vorrei parlare in questo post, aprendo una piccola parentesi curiosita’ sui pianeti del sistema solare. In particolare, vorrei discutere la durata del giorno sui diversi pianeti, confrontandola proprio coi numeri a cui siamo abituati, cioe’ quello che osserviamo direttamente sulla Terra.

Per prima cosa, vi diro’ qualcosa di “sorprendente”, la Terra gira intorno al Sole in circa 365.25 giorni e gira su se stessa in “quasi 24 ore”. Solo per curiosita’, quel 0,25 in piu’ nel periodo di rivoluzione e’ proprio il responsabile dell’inserimento di un anno bisestile ogni quattro. Questa soluzione serve a recuperare lo scarto che, in caso contrario, provocherebbe una differenza crescente tra periodo dell’anno ed effettiva posizione intorno al Sole.

Bene, l’alternarsi delle stagioni, che indica l’anno terrestre, e’ semplicemnete dato dalla pozione della Terra sull’orbita fatta intorno al Sole. Come detto, in poco piu’ di 365 giorni, la Terra tornera’ nella stessa posizione.

Quello che invece chiamiamo giorno, cioe’ l’alternarsi di luce e buio, dura 24 ore. Cosa significa Ogni 24 ore torniamo a vedere il Sole nella stessa posizione.

Questo ovviamente e’ vero per la Terra. Cosa possiamo dire per gli altri pianeti?

sistema_solare

Come potete immaginare, le durate del giorno e dell’anno di un pianeta del Sistema Solare dipendono dai parametri orbitali del pianeta stesso. Per quanto riguarda il periodo impiegato a percorrere l’intera orbita, pianeti piu’ lontani dal Sole dovranno percorrere un percorso piu’ lungo per tornare nella stessa posizione, e questo fa si che i periodi siano via via crescenti quando ci allontaniamo dal Sole.

Ecco una tabella con i periodi di rivoluzione dei pianeti del Sistema Solare:

Pianeta Planet Rotazione

Rotation

Rivoluzione

Revolution

Plutone Pluto ~6gg 247,7 anni/years
Nettuno Neptune 16h 165 anni/years
Urano Urans -11h 84 anni/years
Saturno Saturn 10h 40′ 29,46 anni/years
Giove Jupiter 10 h 11,86 anni/years
Marte Mars ~24 h 687 giorni/days
Terra Earth 24 h 365 giorni/days
Venere Venus -243 gg 225 giorni/days
Mercurio Mercury 59 gg 88 giorni/days

oltre a questi, trovate anche i periodi di rotazione dei corpi. Fate attenzione ad una cosa, i segni negativi che compaiono per due pianeti, Urano e Venere, servono solo per indicare il moto retrogrado questi pianeti, cioe’ il fatto che questi corpi girino al contrario sull’orbita rispetto gli altri.

Questa tabella ci permette subito di calcolare il periodo dell’anno dei pianeti che, ad esempio, nel caso di Venere sara’ di 225 giorni.

Cosa possiamo dire riguardo al giorno?

Facciamo subito una distinzione molto importante. Quello che comunemente siamo abituati ad indicare come giorno e’ inteso come il lasso di tempo che la Terra impiega a fare un giro su se stessa. In astronomia, questo e’ noto come “giorno siderale” o “giorno sidereo”. Prima pero’, abbiamo definito, intuitivamente, il giorno in maniera diversa, cioe’ come l’alternarsi della luce e del buio. In tal senso, per un osservatore che potrebbe anche ignorare il moto di rotazione del pianeta intorno all’asse, il giorno altro non e’ che il lasso di tempo che serve per fare un intero ciclo luce-buio.

In tal senso, tra i pianeti del sistema solare, molto interessante e’ il caso di Mercurio. Come sappiamo, Mercurio e’ il piu’ interno dei pianeti del sistema solare ed inoltre e’ quello che presenta un’eccentricita’ maggiore dell’orbita. Cosa significa? Semplicemente, l’ellisse percorsa da Mercurio intorno al Sole, presenta la maggiore differenza tra asse maggiore e minore. Detto in altri termini, l’orbita di Mercurio e’ quella che maggiormente si allontana da una circonferenza. Per la precisione, l’eccentricita’ di Mercurio sarebbe seconda a quella di Plutone che pero’ e’ stato declassato da pianeta a planetoide.

Come visto nella tabella, il periodo di rivoluzione di Mercurio e’ di circa 88 giorni, mentre servono 59 giorni per completare il giro intorno all’asse. Da questi numeri, Mercurio ogni due rivoluzioni fa tre giri intorno al proprio asse.

Fate attenzione pero’, se parliamo di giorno sidereo, in questo caso le 24 ore che abbiamo sulla Terra divengono 59 giorni. Ancora piu’ marcata e’ la differenza se parliamo di periodi diurni e notturni. Data la grande eccentricita’, mentre Mercurio gira su stesso, si avvicina e si allontana notevolmente dal Sole. Questo moto fa si che il giorno inteso come alternarsi buio-luce duri su Mercurio ben 176 giorni. Dati i numeri sulla tabella, il giorno dura piu’ o meno il doppio di un anno.

Pensando a come siamo abituati a concepire il tempo sulla Terra, e’ molto difficile immaginare la situazione di Marcurio. Praticamente, aspettando che faccia buoi (o luce in alternativa), vedremo passare per due volte tutte le stagioni.

Ovviamente non c’e’ nulla di misterioso in questo fatto, e’ solo una curiosita’, a mio avviso interessante, che si evidenzia sui pianeti del Sistema Solare.

Per completezza, se l’orbita di Mercurio fosse circolare, data la sua vicinanza al Sole, gli effetti di marea farebbero si che il pianeta mostrerebbe sempre la stessa faccia, esattamente come avviene per la Luna.

Sempre in termini di curiosita’, proviamo ad immaginare di essere sulla Luna e che la Terra sia il nostro Sole. In questo senso, poiche’ come visto in questo post:

Spettacolo lunare per il 23 Giugno

a parte piccole variazioni, la Luna mostra sempre la stessa faccia alla Terra, il giorno durerebbe un tempo infinito. Se fossimo sulla faccia verso Terra, illuminata in questo esperimento mentale, sarebbe sempre giorno, in caso contrario sarebbe sempre notte perche’ ci troveremmo sempre dall’altra parte.

Concludendo, i moti dei pianeti intorno al Sole presentano ovviamente delle differenze anche marcate tra loro. Parlando di giorno sidereo, cioe’ come il periodo necessario al pianeta per compiere un moto di rotazione intorno al proprio asse, passiamo da poche ore fino a decine di giorni. Per quanto riguarda invece il giorno inteso come alternanza luce-buio, in questo caso si devono considerare contemporaneamente sia il moto di rotazione che la rivoluzione. In tal senso, come nel caso di Mercurio, si possono avere situazioni apparentemente curiosieper noi che siamo abituati a vivere sulla Terra.

 

Psicosi 2012. Le risposte della scienza”, un libro di divulgazione della scienza accessibile a tutti e scritto per tutti. Matteo Martini, Armando Curcio Editore.

Perche’ la ricerca: economia

5 Gen

Nel post precedente:

Perche’ la ricerca: scienza e tecnologia

abbiamo cercato di rispondere alla domanda “perche’ fare ricerca?” discutendo il lato tecnologico e le possibili ricadute scientifiche nella vita di tutti i giorni. Come detto, stiamo cercando di rispondere a questa domanda non in senso generale, ma proprio contestualizzando la risposta in questi anni di profonda crisi economica o, comunque, investendo nella ricerca a discapito di settori considerati piu’ importanti o vitali per tutti i cittadini.

Dopo queste considerazioni piu’ tecniche, vorrei invece analizzare il discorso economico della ricerca. Come sappiamo, e come abbiamo visto nel precedente post, fare ricerca ad alti livelli implica investimenti molto massicci. Tolte le ricadute tecnologiche, cerchiamo invece di capire se sono investimenti a fondo perduto o se implicano un ritorno economico tangibile per le nazioni.

Come nel caso precedente, prendiamo come esempio tra grandi ricerche in settori diversi per cercare di quantificare in modo pratico, numeri alla mano. I soliti tre esempi sono: ITER, il reattore a fusione per scopi di ricerca, le missioni spaziali e il CERN, come esempio di grande laboratorio per la fisica delle particelle.

Partiamo da ITER e partiamo con una considerazione che ci deve far riflettere. ITER e’ una collaborazione internazionale in cui entrano gli Stati Uniti, il Giappone e alcuni paesi europei. Come detto, parliamo di un investimento dell’ordine di 10 miliardi di euro. Forse vi fara’ riflettere il fatto che Francia e Giappone hanno discusso per lungo tempo proprio per cercare di costruire il reattore nel proprio paese. Ovviamente averlo in casa offre dei vantaggi notevoli in termini di ricadute tecnologiche, ma sicuramente implica una maggiore spesa per il paese ospitante. Conoscendo la situazione economica attuale, se un paese cerca in tutti i modi di averlo in casa e dunque spendere di piu’, significa che qualcosa indietro deve avere.

Passiamo invece alle missioni spaziali. Altro tema scottante nel discorso economico e molte volte visto come una spesa enorme ma non necessaria in tempi di crisi. Partiamo, ad esempio, dal discorso occupazionale. Molte volte sentiamo dire dai nostri politicanti o dagli esperti di politica ecnomica che si devono fare investimenti per creare posti di lavoro. Vi faccio un esempio, al suo apice, il programma di esplorazione Apollo dava lavoro a circa 400000 persone. Non pensiamo solo agli scienziati. Un programma del genere crea occupazione per tutte le figure professionali che vanno dall’operaio fino al ricercatore, dall’addetto alle pulizie dei laboratori fino all’ingegnere. Ditemi voi se questo non significa creare posti di lavoro.

Passando invece all’esempio del CERN, sicuramente i numeri occupazionali sono piu’ piccoli, ma di certo non trascurabili. Al CERN ci sono circa 2500 persone che tutti i giorni lavorano all’interno del laboratorio. A questi numeri si devono poi sommare quelli dei paesi che partecipano agli esperimenti ma non sono stanziali a Ginevra. In questo caso, arriviamo facilmente ad una stima intorno alle 15000 unita’.

A questo punto pero’ sorge una domanda che molti di voi si staranno gia’ facendo. LHC, come esempio, e’ costato 6 miliardi di euro. E’ vero, abbiamo creato posti di lavoro, ma la spesa cosi’ elevata giustifica questi posti? Con questo intendo, se il ritorno fosse solo di numeri occupazionali, allora tanto valeva investire cifre minori in altri settori e magari creare piu’ posti di lavoro.

L’obiezione e’ corretta. Se il ritorno fosse solo questo, allora io stesso giudicherei l’investimento economico, non scientifico, fallimentare. Ovviamente c’e’ molto altro in termini finanziari.

Prima di tutto vi devo spiegare come funziona il CERN. Si tratta di un laboratorio internazionale, nel vero senso della parola. Il finanziamento del CERN viene dai paesi membri. Tra questi, dobbiamo distinguere tra finanziatori principali e membri semplici. Ovviamente i finanziatori principali, che poi sono i paesi che hanno dato il via alla realizzazione del CERN, sono venti, tra cui l’Italia, ma, ad esempio, alla costruzione di LHC hanno partecipato circa 50 paesi. Essere un finanziatore principale comporta ovviamente una spesa maggiore che viene pero’ calcolata anno per anno in base al PIL di ogni nazione.

Concentriamoci ovviamente sul caso Italia, ed in particolare sugli anni caldi della costruzione di LHC, quelli che vanno dal 2000 al 2006, in cui la spesa richiesta era maggiore.

Nel 2009, ad esempio, il contributo italiano e’ stato di 83 milioni di euro, inferiore, in termini percentuali, solo a Francia, Germania e Regno Unito.

Contributo italiano al CERN in milioni di euro. Fonte: S.Centro, Industrial Liasion Officer

Contributo italiano al CERN in milioni di euro. Fonte: S.Centro, Industrial Liaison Officer

Il maggiore ritorno economico per i paesi e’ ovviamente in termini di commesse per le industrie. Che significa questo? Servono 100 magneti, chi li costruisce? Ovviamente le industrie dei paesi membri che partecipano ad una gara pubblica. Il ritorno economico comincia dunque a delinearsi. Investire nel CERN implica un ritorno economico per le industrie del paese che dunque assumeranno personale per costruire questi magneti. Stiamo dunque facendo girare l’economia e stiamo creando ulteriori posti di lavoro in modo indiretto.

Apriamo una parentesi sull’assegnazione delle commesse. Ovviamente si tratta di gare pubbliche di appalto. Come viene decretato il vincitore? Ogni anno, il CERN calcola un cosiddetto “coefficiente di giusto ritorno”, e’ un parametro calcolato come il rapporto tra il ritorno in termini di commesse per le industrie e il finanziamento offerto alla ricerca. Facciamo un esempio, voi investite 100 per finanziare la costruzione di LHC, le vostre industrie ottengono 100 di commesse dal CERN, il coefficiente di ritorno vale 1.

Ogni anno, in base al profilo di spesa, ci saranno coefficienti diversi per ciascun paese. Si parla di paesi bilanciati e non bilanciati a seconda che il loro coefficiente sia maggiore o minore del giusto ritorno. In una gara per una commessa, se l’industria di un paese non bilanciato arriva seconda dietro una di un paese gia’ bilanciato, e lo scarto tra le offerte e’ inferiore al 20%, allora l’industria del paese non bilanciato puo’ aggiudicarsi la gara allineandosi con l’offerta del vincitore. In questo modo, viene ripartito equamente, secondo coefficienti matematici, il ritorno per ciascun paese.

Cosa possiamo dire sull’Italia? Negli anni della costruzione di LHC, LItalia ha sempre avuto un coefficiente molto superiore al giusto ritorno. Per dare qualche numero, tra il 1995 e il 2008, il nostro paese si e’ aggiudicato commesse per le nostre aziende per un importo di 337 milioni di euro.

Vi mostro un altro grafico interessante, sempre preso dal rapporto del prof. S.Centro dell'”Industrial Liaison Officer for Italian industry at CERN”:

Commesse e coefficiente di ritorno per l'Italia. Fonte: S.Centro, Industrial Liaison Officer

Commesse e coefficiente di ritorno per l’Italia. Fonte: S.Centro, Industrial Liaison Officer

A sinistra vedete gli importi delle commesse per gli anni in esame per il nostro Paese, sempre in milioni di euro, mentre a destra troviamo il coefficiente di ritorno per l’Italia calcolato in base all’investimento fatto. Tenete conto che in quesgli anni, la media del giusto ritorno calcolato dal CERN era di 0.97.

Guardando i numeri, non possiamo certo lamentarci o dire che ci abbiano trattato male. La conclusione di questo ragionamento e’ dunque che un investimento nella ricerca scientifica di qualita’, permette un ritorno economico con un indotto non indifferente per le aziende del paese. Ogni giorno sentiamo parlare di rilancio delle industrie, di creazione di posti di lavoro, di rimessa in moto dell’economia, mi sembra che LHC sia stato un ottimo volano per tutti questi aspetti.

Ultima considerazione scientifico-industriale. Le innovazioni apportate facendo ricerca scientifica, non muoiono dopo la realizzazione degli esperimenti. Soluzioni tecnologiche e migliorie entrano poi nel bagaglio industriale delle aziende che le utilizzano per i loro prodotti di punta. Molte aziende vengono create come spin-off di laboratori, finanziate in grossa parte dalla ricerca e poi divengono delle realta’ industriali di prim’ordine. L’innovazione inoltra porta brevetti che a loro volta creano un ritorno economico futuro non quantificabile inizialmente.

Concludendo, anche dal punto di vista economico, fare ricerca non significa fare finanziamenti a fondo perduto o fallimentari. Questo sicuramente comporta un ritorno economico tangibile immediato. Inoltre, il ritorno in termini tecnologici e di innovazione non e’ quantificabile. Fare ricerca in un determinato campo puo’ portare, immediatamente o a distanza di anni, soluzioni che poi diventeranno di uso comune o che miglioreranno settori anche vitali per tutti.

Vi lascio con una considerazione. Non per portare acqua al mulino della ricerca, ma vorrei farvi riflettere su una cosa. In questi anni di crisi, molti paesi anche europei, ma non l’Italia, hanno aumentato i fondi dati alla ricerca scientifica. A fronte di quanto visto, forse non e’ proprio uno sperpero di soldi.

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