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Il metodo made in Italy per produrre Idrogeno

26 Lug

Da molti anni, ormai, sentiamo parlare di un futuro energetico incentrato sull’idrogeno. Molti, parlano di questo possibile combustibile addirittura speculando su un passaggio dall’era del petrolio a quella dell’idrogeno. Come tutti sappiamo, questa soluzione potrebbe essere utilizzata in tantissimi settori. Anche se il più noto, e lasciatemi dire su cui tante leggende sono state create, è quello delle macchine alimentate a idrogeno, questo elemento potrebbe servire per produrre corrente elettrica ed energia nei più svariati settori industriali, consentendo, finalmente, di mettere da parte i fortemente inquinanti idrocarburi ma, soprattutto, l’economia basata su questi oli che non ha fatto altro che creare centri di potere, in primis, e guerre per l’appropriazione e lo sfruttamento dei giacimenti sparsi per il mondo.

Perché, ancora oggi, visto che molti parlano di una panacea di tutti i mali, non utilizziamo l’idrogeno?

Come sapete, molti parlano di poteri forti in grado di bloccare lo sviluppo di queste tecnologie per puri fini economici. Da un lato, queste affermazioni sono corrette. Non voglio nascondermi dietro un dito e dire che viviamo in un mondo ideale. Come tutti sanno, i soldi fanno andare l’acqua in salita ma, soprattutto, decidono dove l’acqua deve passare e dove no. Questo lato economico-oscuro non è però materia del nostro blog. Quello su cui invece vorrei spingere tutti a ragionare è il discorso prettamente energetico e ambientale dell’idrogeno.

Anche molti tra i cosiddetti esperti dell’energia, un po’ per secondi fini ma, mi dispiace dirlo, a volte anche per ignoranza, quando parlano di fonti alternative, dunque non solo idrogeno, dimenticano sempre di prendere in considerazione l’intera filiera del settore che non comprende solo l’utilizzo della risorsa ma anche la sua estrazione o eventuale produzione, stoccaggio, distribuzione, ecc.

Che cosa intendo con questo?

Facciamo un esempio pratico ma inventato. Immaginate di trovare una nuova fonte energetica che possa essere utilizzata per alimentare le automobili. Questa risorsa rende la vostra macchina assolutamente non inquinante e costa 1/10 della benzina. Bene, annunciate la vostra scoperta su internet e immediatamente si formerà un esercito di internauti pronti a parlare della vostra genialata e del fatto che la ricerca, insieme con qualche burocrate in giacca, cravatta e occhiali scuri, vi sta ostacolando. Scommetto che questa storiella ve ne ricorda tante altre sentite in questi anni. Dov’è il problema? Semplice, anche se il nostro carburante costa poco e non inquina, come si produce? Dove si estrae? Se per produrre questo carburante dovete utilizzare carbone, oli o elementi chimici che produrrebbero un effetto sull’atmosfera peggiore di quella dell’uso del petrolio, la vostra invenzione sarebbe ancora molto conveniente? Direi proprio di no.

Bene, questo è quello che vorrei far capire. Ogni qual volta si parla di qualcosa legato all’energia e all’inquinamento, dovete sempre mettere in conto tutti gli aspetti legati a quella determinata risorsa. Esempio pratico? I pannelli solari producono energia dalla fonte rinnovabile per eccellenza, il Sole. Nessuno però vi racconta mai dei costi di produzione dei pannelli o, soprattutto, di quelli di smaltimento dei pannelli ormai esausti. Tenendo conto di questi fattori, si deve ridimensionare molto il vantaggio ottenuto con l’uso di pannelli commerciali. Per carità, non voglio dire che questa soluzione debba essere scartata. Il mio pensiero vuole solo mostrare gli altri aspetti che spesso, soprattutto tra i sostenitori di una tecnologia, vengono completamente taciuti.

Perdonate questa mia lunga introduzione, ma quanto detto è, a mio avviso, importante per inquadrare al meglio la situazione.

Tornando ora al discorso idrogeno, come forse avrete letto, un team di ricercatori del CNR, per essere precisi della sezione di Firenze, ha trovato un nuovo processo di produzione dell’idrogeno che riesce a sfruttare i cosiddetti oli rinnovabili.

Perché è così interessante questa notizia? Alla luce di quanto detto sopra, ad oggi, esistono due modi principali di produzione dell’idrogeno, entrambi con criticità molto importanti. Il primo metodo di produzione consiste nell’estrazione dell’idrogeno dal metano. Per poter avviare il processo è però necessario ossigenare l’ambiente. In questo caso, la produzione di idrogeno è accompagnata da quella di anidride carbonica. Risultato? La produzione di CO2, come è noto, è da evitare per le conseguenze sull’ambiente. Vedete come le considerazioni iniziali ci consentono di fare ora un’analisi critica dell’intero processo?

Il secondo metodo possibile per la produzione dell’idrogeno è semplicemente basato sull’elettrolisi dell’acqua, cioè nella scomposizione di questa fonte nota e ampiamente disponibile in idrogeno e ossigeno. Quale sarebbe ora il rovescio della medaglia? Per fare l’elettrolisi dell’acqua occorre fornire molta energia, energia che deve ovviamente essere messa in conto quando si calcola il rendimento della risorsa. Esempio pratico, se per innescare l’elettrolisi utilizzate energia prodotta da fonti rinnovabili, questo contributo inquinante deve essere contabilizzato e l’idrogeno non è più così pulito. Oltre al problema del costo energetico di produzione, nel caso dell’elettrolisi si deve considerare anche il fattore sicurezza. Idrogeno e ossigeno vengono prodotti ad alte pressioni. Se, per puro caso, i due elementi vengono in contatto tra loro, si crea una miscela fortemente esplosiva.

Alla luce di quanto detto, credo che ora sia più chiaro a tutti il perché, escluso il discorso economico legato al petrolio, ancora oggi la futuribile economia dell’idrogeno ancora stenta a decollare.

Bene, quale sarebbe allora questo metodo made in Italy che i ricercatori del CNR hanno inventato? Come anticipato, questo sistema di produzione sfrutta gli alcoli rinnovabili. Credo che tutti abbiamo bene in mente cosa sia un alcol, perché però parliamo di rinnovabili? Detto molto semplicemente, si tratta degli alcoli, glicerolo, metanolo, ecc., prodotti dalle biomasse, quindi sfruttabili, rinnovabili e anche assolutamente diffuse.

Come funziona questo metodo?

Come noto alla chimica, rompere la molecola d’acqua in presenza di alcoli richiede molta meno energia rispetto a quella necessaria in presenza di sola acqua. Nessuno però, fino ad oggi, aveva pensato di sfruttare questa evidenza per la produzione di idrogeno. La vera innovazione di questo processo è nell’aggiunta di elettrodi nanostrutturati ricoperti di palladio che fungono da catalizzatori per il processo e raccolgono l’idrogeno prodotto nella reazione. A questo punto, immergendo gli elettrodi in una soluzione acquosa di alcoli è possibile rompere la molecola di acqua producendo idrogeno, evitando la formazione di ossigeno libero e, soprattutto, risparmiando il 60% dell’energia rispetto all’elettrolisi.

Come annunciato anche dagli stessi ricercatori, questo sistema potrà servire in un primo momento per la produzione di batterie portatili in grado di fornire energia in luoghi isolati e, a seguito di ulteriori ricerche e perfezionamenti, potrà essere sfruttato anche per la realizzazione di generatori da qualche KWh fino a potenze più alte.

Apro e chiudo parentesi, non per essere polemico ma per mostrare l’ambito nel quale molto spesso le ricerche si svolgono. Il gruppo di ricerca è riuscito a trovare i finanziamenti per i suoi studi perché al progetto hanno partecipato alcuni enti privati finanziatori, tra cui il credito cooperativo di Firenze.

Solo per concludere, e giusto per ricalcare nuovamente il fatto che la ricerca non si è dimenticata dell’idrogeno, anche a livello governativo, nelle direttive per l’obiettivo 2020 è stato imposto un target di 45KWh per la produzione di 1 Kg di idrogeno. Obiettivo considerato futuribile fino ad oggi ma che richiedeva ricerca aggiuntiva sui sistemi di produzione. Bene, il metodo inventato dal CNR richiede soltanto 18.5KWh per produrre 1 Kg di idrogeno. Direi che questo rende sicuramente il processo economicamente vantaggioso e apre finalmente le porte a un utilizzo, che sarà sempre e comunque graduale, di questa risorsa nella vita di tutti i giorni.

 

Psicosi 2012. Le risposte della scienza”, un libro di divulgazione della scienza accessibile a tutti e scritto per tutti. Matteo Martini, Armando Curcio Editore.

Ma questa crema solare …. come dobbiamo sceglierla?

30 Giu

Sempre alla nostra sezione:

– Hai domande o dubbi?

va il merito, ma ovviamente tutto il merito va a voi che rendete questo blog vivo ed interessante, di aver richiamato da una nostra cara lettrice una nuova interessantissima domanda. Questa volta però, vi preannuncio che l’argomento scelto è molto complesso nella sua apparente semplicità, oltre ad essere assolutamente in linea con il periodo dell’anno. Come potete leggere, la domanda riguarda le creme solari e tutte le leggende che girano, non solo in rete, e che da sempre abbiamo ascoltato.

Come anticipato, non è semplice cercare di trovare la giusta strada nella giungla di informazioni disponibili. Se provate a confrontare dieci fonti, troverete dieci versioni diverse: le creme solari devono essere usate. No, non devo essere usate. Il sole è malato. Il sole provoca il cancro. No, sono le creme che creano il cancro alla pelle. Insomma, di tutto di più, e non pensate di rifuggire nella frase: “mi metto sotto l’ombrellone”, perché, come vedremo, anche questo lascia filtrare alcune componenti dei raggi solari e, sempre scimmiottando quello che trovate in rete, vi può venire il cancro. Allora sapete che c’è? Me ne sto chiuso dentro casa fino a settembre! Va bene così? No, sicuramente non prendi il sole (e quindi non ti viene il cancro), ma non ti si fissa la vitamina D e quindi potresti soffrire di rachitismo.

Insomma, come la mettete la mettete, sbagliate sempre. Cosa fare allora? Sicuramente, in linea con il nostro stile, quello che possiamo fare è “andare con ordine” e provare a verificare quali e quante di queste affermazioni corrispondono al vero. Solo in questo modo potremo capire quale crema solare scegliere, come applicarla e quali sono i rischi che possiamo correre con l’esposizione al Sole.

Prima di tutto, non dobbiamo considerare i raggi solari come un’unica cosa, ma è necessario distinguere la radiazione che ci arriva. Questa suddivisione è essenziale perché l’interazione della nostra pelle con i fotoni emessi dal sole non è sempre uguale, ma dipende dalla lunghezza d’onda. Bene, in tal senso, possiamo distinguere la parte dei raggi solari che ci interessa in tre grandi famiglie, in particolare, per i nostri scopi, ci concentreremo sulla parte ultravioletta dello spettro, che è quella di interesse in questo campo.

La parte cosiddetta ultravioletta è quella con lunghezza d’onda immediatamente inferiore alla parte visibile. Normalmente, questa parte dello spettro viene divisa in UVA, con lunghezza d’onda tra 400 e 315 nanometri, UVB, tra 315 e 280 nanometri e UVC, tra 280 e 100 nanometri. Quando parliamo di tintarella o di danni provocati dalla radiazione solare, dobbiamo riferirci alla parte UV ed in particolare a queste 3 famiglie.

Bene, la componente più pericolosa della radiazione solare è quella degli UVC cioè con lunghezza d’onda minore. Perché? Sono radiazioni utilizzate come germicidi, ad esempio nella potabilizzazione dell’acqua, a causa del loro potere nel modificare il DNA e l’RNA delle cellule. Per nostra fortuna, questa componente della radiazione è completamente bloccata dallo strato di ozono che circonda la Terra. Di questo, e soprattutto dello stato di salute dello strato di ozono, abbiamo parlato in un post specifico:

– Che fine ha fatto il buco dell’ozono?

Per la parte più pericolosa dello spettro, quella degli UVC, possiamo dunque tirare un respiro di sollievo. Vediamo le altre due componenti.

Gli UVA, a causa della lunghezza d’onda maggiore, penetrano più a fondo nella pelle, promuovendo il rilascio di melanina e dunque l’abbronzatura. Che significa? Molto semplice, quando prendiamo il sole, la nostra pelle reagisce cercando di proteggersi autonomamente appunto rilasciando melanina. Questa sostanza serve a far scurire gli strati più superficiali della pelle appunto come protezione dai raggi. Riguardo ala dannosità? Su questo punto, purtroppo, non si ha ancora chiarezza. Per prima cosa, dobbiamo dire che l’esposizione crea meno danni a tempi brevi rispetto, come vedremo, a quella agli UVB. Questa componente però è una delle maggiori sospettate per i danni a lungo termine, connessi anche con l’insorgere di tumori alla pelle, e provoca un invecchiamento veloce della pelle. Gli UVA sono molto conosciuti da coloro che frequentano i centri estetici per sottoporsi alle “lampade”. Questi sistemi infatti hanno sistemi di illuminazione concentrati negli UVA appunto per promuovere un’abbronzatura rapida.

Per quanto riguarda gli UVB invece, si tratta della radiazione più pericolosa nell’immediato. Questa componente dello spettro solare infatti, è responsabile della classica “scottatura”, in alcuni casi vera e propria ustione, provocata da un’esposizione prolungata al Sole. Anche se potenzialmente dannosa, la radiazione UVB è comunque importante per il nostro organismo perché promuove la sintesi della vitamina D. Come è noto, in assenza di questo fondamentale processo possono insorgere casi di rachitismo, soprattutto in soggetti non ancora adulti.

Bene, abbiamo capito come è divisa la radiazione ultravioletta del sole e abbiamo finalmente capito a cosa si riferiscono tutti questi nomi che siamo soliti ascoltare o leggere riguardo la tintarella.

Passiamo dunque a parlare di creme solari. Cosa dobbiamo cercare? Perché? Quali sono i prodotti più indicati?

Ripensando a quanto scritto, viene evidente pensare che una buona crema debba proteggerci dagli UVA e UVB poiché per gli UVC ci pensa lo strato di ozono. Primo pensiero sbagliato! Quando acquistiamo una crema solare, che, come vedremo, offre una certa protezione, questo valore si riferisce alla sola componente B della radiazione. Perché? Semplice, come visto, gli UVB sono responsabili delle scottature immediate. Se ci proteggiamo da questa componente salviamo la pelle garantendo la tintarella. Questo è assolutamente falso, soprattutto pensando ai danni a lungo termine dati da un’esposizione troppo prolungata agli UVA.

Solo negli ultimi anni, sono comparse sul mercato creme con protezioni ad alto spettro. Fate bene attenzione a questa caratteristica prima di acquistare un qualsiasi prodotto. Una buona crema deve avere un fattore di protezione per gli UVA non inferiore ad 1/3 di quello garantito per gli UVB.

Ora però, anche seguendo quanto affermato, parliamo appunto di queste protezioni. Fino a qualche anno fa, ricordo benissimo gli scaffali dei negozi strapieni di creme solari con fattori di protezione, SPF cioè fattore di protezione solare, che andavano da 0 a qualcosa come 100. Già allora mi chiedevo, ma che significa zero? A che cosa serve una crema con protezione 0 e, allo stesso modo, protezione 100 o, come qualcuno scriveva “protezione totale”, significa che è come mettersi all’ombra?

Capite già l’assurdità di queste definizioni create solo ed esclusivamente a scopo commerciale. Fortunatamente, da qualche anno, è stata creata una normativa apposita per questo tipo di cosmetici aiutando il consumatore a comprendere meglio il prodotto in questione. Oggi, per legge, esistono solo 4 intervalli di protezione che sono: basso, medio, alto e molto alto. Questi intervalli, in termini numerici, possono essere compresi utilizzando la seguente tabella:

 

Protezione SPF

Bassa 6 – 10

Media 15 – 20 – 25

Alta 30 – 50

Molto alta 50+

Notiamo subito che sono scomparse quelle orribili, e insensate, definizioni “protezione zero” e “protezione totale”. Ma, in soldoni, cosa significa un certo valore di protezione? Se prendo una crema con SPF 30 è il doppio più efficace di una con SPF 15? In che termini?

Detto molto semplicemente, il valore numerico del fattore di protezione indica il tempo necessario affinché si creino scottature rispetto ad una pelle non protetta. Detto in questo modo, una SPF 15 significa che la vostra pelle si brucerà in un tempo 15 volte maggiore rispetto a quello che impiegherebbe senza quella crema. Dunque, anche con una crema protettiva posso scottarmi? Assolutamente si. In termini di schermo alla radiazione, il potere schermante non è assolutamente proporzionale allo SPF ma, come visto, solo ai tempi necessari per l’insorgere di scottature.

A questo punto, abbiamo capito cosa significa quel numerello che corrisponde al fattore di protezione, ma come fanno le creme a schermare effettivamente dai raggi solari?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo in realtà dividere la protezione in due tipi: fisico e chimico. La protezione fisica avviene in modo pressoché meccanico aumentando il potere riflettente della pelle. Per questo scopo, nelle creme solari sono presenti composti come il biossido di titanio e l’ossido di zinco, sostanze opache che non fanno altro che far riflettere verso l’esterno la radiazione solare che incide sul nostro corpo.

Primo appunto, secondo alcuni l’ossido di zinco potrebbe essere cancerogeno! Ma come, mi metto la crema per proteggermi dai raggi solari ed evitare tumori alla pelle e la crema crea tumori alla pelle? In realtà, come al solito, su questo punto si è fatta molta confusione, tanto terrorismo e si è corsi, per convenienza, a conclusioni affrettate. Alcune ricerche hanno mostrato come tessuti cosparsi di molecole di ossido di zinco e sottoposti ad irraggiamento UV possano sviluppare radicali liberi che a loro volta reagiscono con le cellule modificandone il DNA. Questo processo può portare alla formazione di melanomi, per la pelle, e di altri tumori, per le altre cellule. Ora, si tratta di studi preliminari basati su valori di irraggiamento più alti rispetto a quelli che normalmente possono derivare da un’esposizione, anche prolungata, anche nelle ore centrali della giornata, al Sole. Detto molto semplicemente, questi studi necessitano di ulteriori ricerche per poter definire margini di errore e valori corretti. Gli stessi autori di queste analisi preliminari si sono raccomandati di non male interpretare il risultato dicendo che le creme solari provocano il cancro alla pelle. In altre parole, si corrono più rischi non proteggendosi dal sole piuttosto che proteggendosi con una crema contenente ossido di zinco. Tra le altre cose, questa molecola è molto nota tra le mamme che utilizzano prodotti all’ossido di zinco per alleviare le ustioni da pannolino nei loro bambini.

Detto questo, abbiamo poi la protezione chimica. Come potete facilmente immaginare, in questo caso si tratta di una serie di molecole (oxibenzone, fenilbenzilimidazolo, acido sulfonico, butil metoxidibenzoilmetano, etilexil metoxicinnamato, ecc.) che hanno il compito di assorbire la radiazione solare e di cedere parte di questa energia sotto forma di calore. Perché possiamo trovare così tante molecole in una crema solare? Semplice, ognuna di queste è specifica per una piccola parte dello spettro di radiazione, sia UVA che UVB. Anche su queste singole molecole, ogni tanto qualcuno inventa storie nuove atte solo a fare terrorismo, molto spesso verso case farmaceutiche. Singolarmente, come nel caso dell’ossido di titanio, ci possono essere studi più o meno avanzati, più o meno veritieri, sulla pericolosità delle molecole. Anche qui però, molto spesso si tratta di effetti amplificati, ben oltre la normale assunzione attraverso la cute e, ripeto per l’ennesima volta, si rischia molto di più esponendosi al sole piuttosto che utilizzando creme solari.

Ennesima cavolata in voga fino a qualche anno fa e ora vietata: creme solari “water proof”, cioè creme resistenti completamente all’acqua. Ve le mettete una volta, fate quanti bagni volete e siete a posto. Ma secondo voi, è possibile qualcosa del genere? Pensate di spalmarvi una crema o di farvi un tatuaggio indelebile? Oggi, per legge, la dicitura water proof è illegale e ha lasciato spazio, al massimo, a “water resistant”, cioè resistente all’acqua. Una qualsiasi crema solare, a causa del bagno, del sudore, del contatto con il telo, tende a rimuoversi e, proprio per questo motivo, si consiglia di riapplicare la crema ogni 2-3 ore circa per garantire la massima protezione possibile.

Riassumendo, abbiamo capito che conviene, sempre ed in tutti i casi, utilizzare una crema solare protettiva, ma quale scegliere?

Molto brevemente, in questo caso, si deve valutare quello che è definito il proprio fenotipo. Come potete immaginare, si tratta di una serie di caratteristiche fisiche che determinano, in linea di principio, l’effetto dell’esposizione la Sole. Per poter determinare il proprio fenotipo, possiamo fare riferimento a questa tabella:

fenotipo

Ovviamente, per i valori più bassi (I e II) è consigliabile utilizzare una crema ad alto SPF, valore che può diminuire qualora fossimo meno soggetti a scottature ed ustioni.

Credo che a questo punto abbiamo un quadro molto più chiaro riguardo alla creme solari ed alla loro utilità. Ripeto, per l’ennesima volta, in ogni caso, proteggersi è sempre meglio che esporsi al sole senza nessuna protezione. Ultimo appunto, che vuole sfatare un mito molto diffuso, sotto l’ombrellone siamo comunque esposti alla radiazione solare. In primis, il tessuto di molti ombrelloni lascia passare buona parte dello spettro solare ma, soprattutto, la riflessione dei raggi solari, ad esempio ad opera della sabbia, raggiunge comunque un soggetto tranquillo e (falsamente) riparato sotto l’ombrellone. In genere, la riflessione dei raggi solari può incrementare, e anche molto, la quantità di radiazione a cui siamo esposti. Stando nell’acqua, ad esempio, abbiamo sia un’esposizione diretta ai raggi solari sia una indiretta dovuta ai raggi riflessi dalla superficie. Come potete immaginare questo amplifica molto l’esposizione.

Concludendo, utilizzate le creme solari ma, soprattutto, leggete bene le etichette prima di acquistare o, peggio ancora utilizzare, un qualsiasi prodotto. Ovviamente, qualsiasi prodotto diventa non efficace se unito alla nostra incoscienza. Se pensate di potervi spalmare una crema e stare come lucertole sotto il Sole dalle 10 del mattino al tramonto … forse questa spiegazione è stata inutile.

 

Psicosi 2012. Le risposte della scienza”, un libro di divulgazione della scienza accessibile a tutti e scritto per tutti. Matteo Martini, Armando Curcio Editore.

Tempesta solare e problemi ai telefoni?

21 Giu

Nella sezione:

Hai domande o dubbi?

e attraverso varie mail che mi sono arrivate, mi è stato chiesto di fare un po’ di chiarezza sui problemi telefonici che si sono avuti nei giorni scorsi soprattutto in virtù di quanto raccontato su vari siti e giornali. Come forse avrete letto, diverse fonti hanno infatti puntato il dito contro la forte attività solare per spiegare i guasti alla rete mobile, soprattutto per i clienti wind, che hanno visto un picco di malfunzionamenti intorno al 13 Giugno.

Diverse volte su questo blog ci siamo occupati di attività solare e dell’alternanza di massimi e minimi che la nostra stella presenta nel corso del tempo:

– Evidenze dal Sole?

– Le macchie solari AR1504

– Gli effetti di AR1504

– Sole: quanta confusione!

– Inversione dei poli terrestri

– Nuova minaccia il 22 Settembre?

– Come seguire il ciclo solare

– Curiosita’ sui cicli solari

Possiamo scegliere tra era glaciale o desertificazione

Come visto, il nostro Sole non è affatto un corpo con un’attività costante nel tempo ma passa attraverso periodi di massimo e minimo in un tempo di circa 11 anni. Non c’è assolutamente nulla di strano o di anomalo in questo comportamento, ma il tutto fa parte del normale e corretto funzionamento di stelle di questo tipo. Nonostante la buona conoscenza astronomica del Sole, molto spesso l’attività di questa stella, soprattutto a causa della sua connessione con la Terra e con la vita, viene chiamata in causa per annunciare catastrofi o per spiegare, come nel caso in questione, problematiche che in realtà non sono assolutamente correlate.

Cerchiamo dunque di andare con ordine e capire prima di tutto cosa è successo qualche giorno fa.

Come detto all’inizio, la scorsa settimana si sono avuti problemi per molti clienti di telefonia fissa e mobile principalmente per l’operatore Wind. Moltissime persone sono rimaste per qualche ora completamente isolate ed impossibilitate sia a ricevere chiamate che a collegarsi alla rete.

Normali problemi? In realtà no, dal momento che blackout così estesi rappresentano eventi eccezionali e, molto spesso, legati a problematiche uniche e per cui la rete non è protetta. Normalmente, quando avvengono problemi di questo tipo i guasti vengono risolti e realizzate soluzioni specifiche che possano impedire nel futuro il riproporsi di anomalie simili.

Nonostante questo, diverse fonti sulla rete hanno parlato di questi guasti parlando di eventi dovuti alla forte attività del Sole. Come forse avrete letto, nei giorni precedenti il guasto si sono registrati alcuni flare solari molto potenti che, stando a quanto riportato, avrebbero rilasciato particelle molto energetiche che una volta arrivate sulla Terra avrebbe messo fuori gioco i satelliti delle comunicazioni.

Aspettate un attimo. Guasto alla rete fissa e mobile per i clienti Wind. Se proprio vogliamo essere precisi, alcune interruzioni sporadiche e di minore entità per un numero ristretto di clienti Fastweb. Spiegazione? I flare solari. C’è qualcosa che non mi torna in tuta questa storia. Secondo voi, il Sole emette particelle energetiche verso la Terra. Queste arrivano e decidono di colpire solo le infrastrutture di un operatore lasciando intatte le altre? Capite l’assurdità di quello che vi stanno dicendo?

Torniamo seri e cerchiamo di capire meglio l’intera storia. Come visto negli articoli precedenti, durante i periodi di massima attività solare ci possono essere emissioni di flare di particelle verso l’esterno. Queste potenti emissioni possono ovviamente arrivare sulla Terra. Normalmente, i bersagli più a rischio sono i satelliti in orbita perché esposti al flusso di particelle. La superficie terrestre è invece protetta e schermata dallo scudo magnetico offerto dal campo geomagnetico. Questa naturale protezione riesce a deviare la maggior parte delle radiazioni dannose provenienti dal Sole impedendo a queste di raggiungere la superficie.

Solo per maggiore informazione e per completezza, vi riporto anche il link della pagina che Wind ha pubblicato per spiegare il motivo del guasto e, soprattutto, per scusarsi con i propri clienti:

Wind guasto 13 Giugno

Premesso dunque il discorso sull’assurdità del solo operatore telefonico, credo sia interessante capire meglio, approfittando della bufala, come funziona la rete mobile che ci consente di telefonare, inviare messaggi e collegarci alla rete con i nostri dispositivi senza fili.

Oggi come oggi, siamo talmente abituati alla possibilità di collegamento che abbiamo a disposizione che molti di noi ignorano completamente come funzioni questa tipologia di comunicazione. Quando effettuiamo una chiamata, il nostro cellulare emette onde radio con una frequenza specifica. Ad oggi, la maggior parte dei telefonini che abbiamo hanno la possibilità di emettere onde in tre bande, di cui la terza utilizzata solo in alcuni paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti.

Bene, le onde radio prodotte dal nostro cellulare, contengono le informazioni relative alla chiamata che stiamo facendo. Detto in parole povere, la nostra voce captata dal microfono del cellulare mette in vibrazione una membrana che genera un segnale successivamente digitalizzato e trasmesso attraverso onde radio. Queste onde vengono poi captate da quella che viene chiamata “stazione base”. Questa altro non è che una struttura munita di antenne riceventi che captano le onde radio e le trasmettono attraverso una rete cablata. Come potete capire, il vantaggio della rete mobile è rappresentato dalla possibilità di poter comunicare senza fili. Le onde radio che si propagano in aria rappresentano il filo invisibile che connette il nostro dispositivo mobile con la stazione base.

Le stazioni base possono essere di diverse dimensioni e potenze. Esistono anche stazioni “camuffate” per potersi integrare al meglio con l’ambiente circostante (finti alberi, integrate in strutture preesistenti o, anche, installate su carrelli mobili che possono essere spostati da un punto all’altro). La stazione base con cui il nostro telefono è connesso rappresenta quella che viene definita “cella”. Il numero di stazioni base presenti nel territorio è determinato ovviamente dalla copertura che il sistema utilizzato riesce ad offrire e alla potenza massima installabile in base alla zona specifica. Per spiegarmi meglio, la copertura offerta da una singola stazione non è calcolabile a priori ma dipende anche dalla morfologia del territorio in questione e alla presenza di case, edifici o altre strutture in grado di limitare la copertura a causa della riflessione e dispersione dei segnali radio inviati dai cellulari.

Oltre alla comunicazione voce e messaggistica, a partire dalla seconda generazione di comunicazione (2G), i nostri cellulari sono in grado di inviare e ricevere anche pacchetti di dati che sono quelli che ci consentono di collegarci ad internet senza un cablaggio fisico.

Capite dunque come è possibile chiamare dai nostri cellulari? La connessione tra le stazioni base avviene invece via normali cavi coassiali o, sempre più spesso, attraverso fibre ottiche. In particolare, l’utilizzo delle fibre ha consentito di migliorare la trasmissione dei segnali con minori perdite nel percorso e di aumentare il numero di collegamenti gestibili a parità di sezione del filo.

E se non sono presenti stazioni base nelle vicinanze? Semplice, questo è il caso di un cellulare che, come si dice, “non ha campo”. In regioni isolate del pianeta si ricorre ad una tecnologia diversa che è invece quella dei telefoni satellitari. In questo caso, i dispositivi si connettono direttamente con satelliti in orbita geostazionaria che hanno il compito di ritrasmettere i segnali digitali a Terra e di consentire in questo modo la comunicazione da qualsiasi parte del pianeta.

 

Psicosi 2012. Le risposte della scienza”, un libro di divulgazione della scienza accessibile a tutti e scritto per tutti. Matteo Martini, Armando Curcio Editore.

 

Tomografie …. vulcaniche

30 Mag

Eccoci di nuovo qui. Scusate se in questi giorni sono un po’ assente ma, prima di tutto, ho molti impegni da portare avanti ma, soprattutto, come detto diverse volte, e aggiungo per nostra pace, il lato complottista-catastrofista e’ un po’ a corto di idee.

Negli ultimi giorni e’ stata pubblicizzata, anche su diversi giornali, una nuova campagna di misure che dovrebbe partire molto a breve e che personalmente trovo molto interessante. Come forse avrete letto, l’ambizioso progetto si propone di effettuare una tomografia della struttura interna di uno dei piu’ famosi vulcani italiani, l’Etna.

Il progetto, denominato Tomo-Etna, e’ stato annunciato solo una paio di giorni fa in una conferenza stampa seguita da moltissimi giornalisti non solo scientifici. Ecco la locandina dell’evento:

Conferenza stampa di presentazione del progetto Tomo-Etna

Conferenza stampa di presentazione del progetto Tomo-Etna

Come potete leggere, al progetto afferiscono diverse universita’ e istituzioni provenienti da diverse parti del mondo. Per l’Italia, come e’ facile immaginare, diverse sezioni dell’INGV partecipano attivamente fornendo uomini e mezzi.

Come e’ possibile fare una tomografia interna di un vulcano?

Apparentemente, la cosa puo’ sembrare molto strana e difficile da realizzare. In realta’, si tratta, sulla carta, di un progetto facile da spiegare. Creando onde sismiche artificiali, si misura la propagazione delle onde nel sottosuolo riuscendo in questo modo a risalire, attraverso le variazioni di densita’, alla struttura interna. Prima che qualcuno salti dalla sedia gridando allo scandalo pensando alle “onde sismiche artificiali”, non si tratta di nulla di pericoloso. In parole povere, sfruttando aria compressa, vengono create delle onde che poi si propagano all’interno dei materiali e, di volta in volta, si misura la loro riflessione nel passaggio tra materiali diversi.

Per questo progetto saranno utilizzati ovviamente mezzi marini, tra cui alcune navi militari italiane con l’ausilio di navi di ricerca di altri paesi, Spagna e Grecia in primis. Per poter rivelare le onde riflesse sono necessari diversi sismografi disposti sia a terra che in mare, utili per creare una rete fitta e precisa di strumenti. Per quanto riguarda il lato terrestre, come sappiamo bene, la rete di monitoraggio presente sul vulcano e’ gia’ sufficiente allo scopo. In mare invece la situazione si fa solo leggermente piu’ complicata poiche’ verranno calati sul fondo degli OBH, acronimo che sta per “Ocean-bottom Seismometer”.

OBS utilizzato nelle isole Barbados

OBS utilizzato nelle isole Barbados

Detto molto semplicemente, sono dei sismografi appositamente costruiti per essere immersi a grande profondita’ e supportare le pressioni. I dispositivi sono montati su delle zavorre che li tengono, insieme ad un gel, sul fondale e sono ovviamente dotati di memorie per la registrazione dei dati.

Oltre alle onde sismiche indotte artificialmente, la fitta rete predisposta misurera’ anche la sismicita’ naturale che aiutera’ a capire meglio la struttura interna. Stando a quanto riportato dal progetto, con questa campagna di misure, che dovrebbe iniziare gia’ dal prossimo mese, si potra’ conoscere con una risoluzione mai raggiunta prima la struttura fino a 20 Km di profondita’. Conoscere questi dati e’ utile anche per capire l’evoluzione e la dinamica di una struttura vulcanica complessa come quella dell’Etna. Per questo vulcano infatti ci si aspetta che la caldera presenti una struttura molto complessa con numerosi punti di accesso del magma. Arrivando a 20Km si spera di giungere fino al confine di quella che e’ chiamata Discontinuita’ di Mohorovicic, o anche slo MOHO, cioe’ la zona di separazione tra la crosta e il mantello.

Struttura interna della Terra

Struttura interna della Terra

Perche’ proprio l’Etna? La risposta a questa domanda l’abbiamo gia’ in parte data. Opinione comune e’ che la struttura interna di questo vulcano sia molto complessa ed inoltre ha presentato nel corso degli anni degli eventi sismici statisticamente fuori media. Cioe’? Come sappiamo, l’Etna non e’ considerato un vulcano esplosivo grazie ad una struttura debole in vari punti e che consente, di volta in volta, di scaricare le pressioni interne mediante modeste eruzioni. Tutto questo pero’ non esclude la possibilita’, come avvenuto in passato, di eventi piu’ violenti. Avere un quadro completo della struttura interna puo’ essere fondamentale per la comprensione e la simulazione su lungo periodo del comportamento del vulcano.

Ad oggi, il progetto Tomo-Etna, che riguardera’ non solo il vulcano ma una area abbastanza vasta della Sicilia e’ pronto ad iniziare. Terminato questo, gia’ si pensa di utilizzare questo tipo di ricerche su altri vulcani italiani, primo tra tutti, ovviamente, il Vesuvio. Come visto diverse volte, in questo caso parliamo invece di un vulcano profondamente diverso e con caratteristiche eruttive che potrebbero essere molto piu’ pericolose di quelle dell’Etna. Per il Vesuvio ancora di piu’, una ricerca del genere con risultati precisi puo’ essere una chiave fondamentale anche per preparare eventuali piani di emergenza o, perche’ no, predisporre sistemi alternativi precedentemente all’eruzione.

 

Psicosi 2012. Le risposte della scienza”, un libro di divulgazione della scienza accessibile a tutti e scritto per tutti. Matteo Martini, Armando Curcio Editore.

Le nubi mammelolari

24 Lug

Diverse volte su questo blog abbiamo parlato di nuvole. In particolare, abbiamo affrontato il discorso cercando di analizzare le tante teorie che vorrebbero forme particolari di nubi in concomitanza o prima di un terremoto, ma anche per confutare tutti quei complottisti che di tanto in tanto vorrebbero nuove tipologie di nuvole formate dalla geoingegneria o dalle scie chimiche:

Una nuvola che fa pensare alla fine del mondo

Altra strana nube, questa volta in Giappone

Altra strana nube a Tulsa

Nuvole sismiche

Scoperta nuova nuvola

Perche’ avviene questo? La risposta e’ in realta’ molto semplice, il cielo e’ un laboratorio ideale, accessibile a tutti e, oggi come oggi, facilmente documentabile. Ognuno di noi puo’, alzando lo sguardo, osservare le nuvole che si formano e, ogni qual volta che vede qualcosa di non usale, impressionarsi. Detto questo, la comunicazione globale istantanea che abbiamo a disposizione, permette a tutti di ragiungere potenzialmente un vasto pubblico. Considerazione personale e’ che si dovrebbe sempre riflettere prima di scrivere qualcosa su internet. Molti ignorano il potenziale bacino di utenti che esiste, mentre altri sfruttano proprio questo fatto per divulgare il verbo fantascientifico.

Perche’ parlo di questo?

Negli ultimi giorni, diversi giornali hanno pubblicato foto molto belle di un particolare tipo di nuvola. Spesso pero’, purtroppo accade molto di frequente, gli articoli che trovate in rete sono completamente sprovvisti di una spiegazione scientifica che spieghi l’origine di questi fenomeni.

Gli articoli in questione si riferivano alla nuvole “Mammelolari”, anche dette “Mammatus”.

Di cosa si tratta?

Senza troppi giri di parole, vi mostro subuto una bellissima foto di questo fenomeno:

Nube Mammatus

Nube Mammatus

Come vedete, si tratta di nuvole dalla forma molto particolare, fatte a grumi con punti di salita e discesa. Proprio a questa particolare forma si deve il nome alla nuvola.

Cosa hanno di speciale queste nuvole?

Dal punto di vista complottista e catastrofista assolutamente nulla. Si tratta di formazioni nuvolose perfettamente conosciute e la cui formazione e’ nota. Dico questo per smorzare subito gli animi.

Nonostante questo, e’ invece interessante capire il processo che porta alla formazione delle mammatus.

Queste nuvole si formano in presenza di corenti ascensionali molto intense e con un umidita’ molto elevata negli strati bassi. Questo spostamento di aria, puo’ portare fino alla tropopausa enormi quantita’ di acqua che, salendo verso l’alto, si trasforma in cristalli di ghiaccio.

Quando il temporale e’ passato, lontano dalla corrente ascensionale, il ghiaccio tendera’ a scendere a causa del proprio peso. Ora, quando i piccoli cristalli di ghiaccio escono dalla zona della nube, incontrano aria molto fredda e secca. La variazione di condizioni, comporta la sublimazione dell’acqua che dunque ripassera’ dallo stato solido, cristalli di ghiaccio, a quello aeriforme, vapore acqueo, risalendo verso l’alto.

Data la grande quantita’ di ghiaccio presente, perche’ portata dalla corrente iniziale, questo moto di discesa e sublimazione si presentaera’ con una certa regolarita’ lungo l’area della nube. Proprio questo movimento comporta la formazione della Mammatus con la sua caratteristica forma.

Dal momento che per la formazione e’ richiesta una umidita’ molto elevata, proprio questi giorni di afa, e spesso con temporali pomeridiani, possono portare alla formazione di queste nuvole. Tra l’altro, lo spettacolo piu’ bello si ha quando la nube riflette i raggi solari assumendo una colorazione variopinta in corrispondenza delle salite e delle discese. Ecco un esempio di questo caso:

Nube Mammatus colpita da raggi solari

Nube Mammatus colpita da raggi solari

Concludendo, molto spesso ci capita di parlare di nubi a causa della facilita’ di visualizzazione per il vasto pubblico. Se a questo si aggiungono i catastrofiti e gli utenti impensieriti d qualche fine del mondo, ecco qui che le foto scattate diventano molto popolari in poche ore.

 

 

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Deep Blue Dot

19 Lug

Diverse volte abbiamo parlato di esopianeti, indicando quei corpi esterni al nostro sistema solare ma che, come avviene per la Terra, ruotano intorno ad una stella madre:

A caccia di vita sugli Esopianeti

Nuovi esopianeti. Questa volta ci siamo?

Esopianeti che non dovrebbero esserci

Ad oggi, moltissimi pianeti extrasolari sono stati individuati e studiati. Purtroppo, la grande distanza che ci separa, consente di fare importanti studi, ma di ricavare molti parametri attraverso misure indirette.

come evidenziato nei post precedenti, lo studio di questi pianeti appare molto interessante anche per la ricerca di ipotetiche forme di vita al di fuori della Terra. In questo senso, notevole importanza viene data ai pianeti orbitanti nella cosiddetta “fascia abitabile”. Come visto in passato, questa altro non e’ che la regione di spazio intorno alla stella madre dove, per implicazioni puramente meccaniche, il pianeta potrebbe essere potenzialmente in grado di ospitare la vita.

Negli ultimi anni, grazie anche ai tanti telescopi in orbita, sono stati individuati moltissimi pianeti nella fascia abitabile delle proprie stelle. Come discusso in precedenza, questo non significa affatto aver trovato la vita su altri pianeti. Se volete, in termini matematici, avere un pianeta in questa fascia e’ una condizione necessaria ma non sufficiente alla vita.

Perche’ torniamo a palrare di esopianeti?

Come potete immaginare, ogni qual volta viene pubblicata una nuova notizia inedita o interessante, facciamo un po’ il punto della situazione per capire lo stato di questa importante ricerca.

Proprio pochi giorni fa, e’ stato pubblicato un articolo che parla di HD189733B. Come ormai abbiamo imparato, questo pianeta, di dimensioni simili a Giove, ruota intorno ad una stella madre chiamata HD189733.

La stella madre e’ una nana arancione e forma un sistema planetario distante circa 63 anni luce dalla Terra.

Ricostruzione artistica di Deep Blue Dot

Ricostruzione artistica di Deep Blue Dot

Vi dico subito che il pianeta in questione non si trova nella fascia abitabile della stella ed e’ stato scoperto con la solita tecnica dei transiti, cioe’ osservando il puntino nelle immagini quando il pianeta passa di fronte alla stella madre.

Cosa ha di interessante questo pianeta?

La scoperta risale al 2005 ma, negli ultimi anni, questo pianeta ha fatto parlare di se diverse volte. Nel 2007, mediante analisi spettrometriche delle emissioni, e’ stata evidenziata la presenza di vapore acqueo nell’atmosfera del pianeta. Ad oggi, questa caratteristica e’ stata trovata soltanto in due pianeti extrasolari.

Riuscire ad individuare il vapore e’ molto importante per lo studio degli esopianeti. Come potete immaginare, questa e’ un’altra importante condizione per assicurare la vita sul pianeta.

Perche’ abbiamo detto che HD 189733B non e’ pero’ in fascia abitabile?

Questo pianeta si trova ad una distanza troppo breve dalla sua stella madre. La temperatura media in questo caso sarebbe dell’ordine dei 1000 gradi centigradi. Ovviamente, troppo alta per pensare a forme di vita.

Oltre al vapore acque, nel 2008 e’ stato pubblicato un altro articolo sempre su questo pianeta in cui, studiando le immagini catturate da Hubble, sarebbe presente metano. Cosi’ come il vapore, anche questo gas e’ molto importante per la ricerca della vita sui pianeti. Ripeto nuovamente che questo particolare pianeta non si trova nella zona abitabile della sua stella ma, nonostante questo, affinare le tecniche di analisi ci consente di avere strumenti adeguati da utilizzare anche nello studio di altri pianeti extrasolari.

Ora, proprio in questi giorni, e’ stato pubblicato un nuovo articolo su questo pianeta. Per la prima volta, e’ stata ricostruita la mappa cromatica del corpo, riuscendo dunque a ricostruire il colore del pianeta.

Cosa e’ uscito fuori?

HD 189733 apparirebbe di un bel colore blu scuro. Proprio per questo motivo, il pianeta e’ stata subito ribattezzato “Deep Blue Dot”, cioe’ punto blu scuro.

Come sappiamo bene, nel nostro sistema solare, la Terra e Nettuno godono di questa proprieta’. In particolare, per il nostro pianeta, il colore dominante e’ dovuto agli oceani.

Attenzione, qui trovate qualche ipotesi complottista in giro per la rete. C’e’ vapore, c’e’ metano, e’ blu come la Terra, qui ci stano nascondendo qualcosa e il pianeta e’ abitato.

Niente di tutto questo e’ reale ovviamente. Il blu scuro, caratteristico del pianeta, e’ dovuto, con buona probabilita’, alla presenza di silicio nell’atmosfera. Inoltre, dalle analisi fatte, si e’ evidenziato come il clima su Deep Blue non e’ affatto accogliente, con violente tempeste con venti fino a migliaia di kilometri all’ora e le temperature di cui abbiamo parlato.  Detto questo, il colore blu e’ solo dovuto al silicio in atmosfera, che riflette la luce proveniente dallla stella madre in questo intervallo di lunghezze d’onda. Dunque, assolutamente nessun oceano di acqua.

Concludendo, la ricerca sugli esopianeti continua ad andare avanti e, molto di frequente, ci riserva delle sorprese o dei notevoli passi avanti. Nel caso visto di HD 189733, e’ stato evidenziato non solo il colore blu scuro del pianeta, che ricorda molto la nostra Terra, ma soprattutto la presenza di vapore d’acqua e metano. Purtroppo, con temperature di 1000 gradi dovute alla vicinanza alla stella madre, Deep Blue non si trova assolutamente nella fascia abitabile e dunque non e’ un candidato per la ricerca di vita al di fuori del nostro sistema Solare.

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Un arcobaleno di notte?

22 Giu

Da sempre, gli arcobaleni rappresentano uno dei principali spettacoli naturali che di sovente appaiono nei nostri cieli. Ognuno di noi, rimane sempre incantato ad ammirare questo fenomeno. Come sappiamo, la spiegazione scientifica degli arcobaleni e’ semplicemente data dal fenomeno della dispersione cromatica, cioe’ dalla luce che, attraversando le gocce d’acqua rimaste nel cielo a seguito di un temporale, viene separata nelle sue componenti, cioe’ nei diversi colori.

Oltre al classico arcobaleno, in alcuni casi piu’ rari, possono essere visibili anche eventi doppi o tripli. Quello che pero’ molti ignorano e’ che un arcobaleno puo’ in casi ancora piu’ rari, essere visibile di notte. Proprio per questo motivo, credo sia interessante parlare di questi fenomeni poco noti ma sicuramente affacinanti.

Senza inutili giri di parole, vi mostro una foto del fenomeno di cui vogliamo parlare:

Esempio di moonbow, un arcobaleno notturno

Esempio di moonbow, un arcobaleno notturno

Come vedete dalla foto, si tratta proprio di un arcobaleno fotografato durante le ore notturne. Spesso, questi fenomeni appaiono come dei poco brillanti archi bianchi.

Come e’ possibile un fenomeno del genere?

Come forse starete pensando, la causa degli arcobaleni notturni e’ senza dubbio la nostra luna. Proprio per questo motivo, in ingelse, mentre un arcobaleno e’ detto “rainbow”, l’arcobaleno notturno e’ anche chiamata “Moonbow”.

Come avviene il fenomeno?

La spiegazione ottica e’ esattamente la stessa del classico arcobaleno, con l’unica variante della sorgente di luce che crea il fenomeno. Come sappiamo bene, durante la notte la Luna appare brillante a causa della luce riflessa dal nostro satellite proveniente dal Sole.

Se il meccanismo e’ lo stesso, perche’ spesso questi archi appaiono bianchi?

Anche la risposta a questa domanda e’ facilmente comprensibile. Dal momento che l’intensita’ di luce riflessa dalla luna e’ sicuramente inferiore a quella diretta del Sole, i moonbow appaiono molto meno intensi. In questo caso, la debole luce non e’ sufficiente ad attivare le cellule cono del colore degli occhi umani.

Data la lieve intensita’ del fenomeno, l’arcobaleno notturno e’ visibile solo in condizioni molto particolari. Prima di tutto, l’arco e’ visibile in direzione opposta a quella della Luna. Inoltre, la Luna deve essere piu’ bassa di 42 gradi all’orizzonte per offrire la massima luminosita’, oltre, ovviamente, ad essere piena o quasi. Nonostante queste condizioni, non e’ assolutamente certo poter osservare un moonbow perche’, come anticipato, l’intensita’ e’ talmente debole da rendere il fenomeno molto raro.

Fate attenzione, spesso il moonbow viene confuso con il fenomeno dell’alone, cioe’ con quel cerchio colorato che con piu’ frequenza si forma intorno alla Luna. Come visto in questo articolo riguardante il Sole:

E adesso abbiamo i “cani solari”

questo fenomeno e’ semplicemente dovuto ai piccoli cristalli di ghiaccio residuo di un cirro che possono offrire una superficie di dispersione per la luce riflessa dal nostro satellite.

Con molta piu’ frequenza e’ invece possibile osservare uno “Spray Moonbow”. In questo caso, le gocce d’acqua per la dispersione della luce, non sono quelle residuo di un temporale, bensi’ quelle di una cascata. Come e’ noto, in prossimita’ di una cascata, l’aria intorno e’ completamente riempita di minuscole goccioline d’acqua. Queste possono, nelle condizioni viste sopra, permettere la dispersione cromatica della luce e formare un moonbow. Ecco una foto di uno spray moonbow:

Spray Moonbow formato dall'acqua di una cascata

Spray Moonbow formato dall’acqua di una cascata

Fenomeni del genre sono, ad esempio, abbastanza visibili nei parchi naturali dove si trovano cascate, grazie anche al minore inquinamento luminoso dato dalle luci artificiali.

Concludendo, il fenomeno dei Moonbow avviene esattamente come negli arcobaleni, l’unica variante e’ che la sorgente di luce e’ offerta dai raggi riflessi dalla Luna. Data la debole intensita’, il fenomeno e’ molto raro e spesso appare come un arco bianco non colorato. Anche in questo caso, possiamo dire che la natura e’ in grado di offrirci spettacoli davvero senza eguali.

 

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E adesso abbiamo i “cani solari”

4 Giu

Solo qualche giorno fa, ho ricevuto un commento molto interessante riguardante quello che secondo la cultura popolare e’ un rarissimo evento naturale, spesso enfatizzato come portatore di qualche presagio o messaggio divino. Come evidenziato dal titolo, si tratta dei cosiddetti “Cani Solari”, dall’inglese “Sun Dog”, anche noti come “Parhelion”, dal greco “Accanto al sole”.

Non sapete di cosa si tratta? Senza tanti giri di parole, vi mostro una foto che vi lascera’ a bocca aperta:

Il fenomeno del Parhelion o Sun Dog

Il fenomeno del Parhelion o Sun Dog

Come vedete, si tratta di una sorta di arcobaleno che si manifesta intorno al sole ma che, a differenza del classico fenomeno conosciouto da tutti, ha i colori invertiti con il rosso all’interno e il violetto all’esterno. Quella mostrata e’ una foto di un Sun Dog completo, cioe’ completamente circolare. Spesso vengono riportate testimonianze di cerchi incompleti come se fossero presenti tre soli in cielo:

Sun dog incompleto come se vi fossero tre soli all'orizzonte

Sun dog incompleto come se vi fossero tre soli all’orizzonte

Come e’ evidente, si tratta di un fenomeno veramente affascinante e che, come riportato, lascia a bocca aperta le fortunate persone che riescono ad assistere al fenomeno.

Ora che abbiamo capito quello di cui stiamo parlando, cerchiamo di capire dal punto di vista scientifico come e perche’ si manifestano questi fenomeni.

Come e’ noto, i classici arcobaleni si formano a causa della dispersione dei raggi solari quando questi passano all’interno di minuscole gocce d’acqua in sospensione dopo un temporale. A causa della riflessione, la luce bianca del Sole, cioe’ composta da diverse lunghezze d’onda, viene scomposta e ciascuna frequenza esce con un angolo diverso, separandosi dalle altre.

Cosi’ per assonanza, possiamo pensare che anche il fenomeno dei Sun Dog sia dovuto ad un evento similare. Questo infatti e’ corretto. Quello che pero’ distingue questi fenomeni dagli altri piu’ noti, e’ nel mezzo che crea la dispersione.

I Parhelion sono creati dalla dispersione della luce solare a causa di minuscoli cristalli di ghiaccio in sospensione che restano a seguito di un violento temporale freddo o come residui del passaggio di cirri. Generalemente, questi mini cristalli, con spessori compresi tra 0.5 e 1 mm, hanno forma esagonale, per cui, al loro interno, la luce viene scomposta un po’ come avviene quando guardiamo un diamante.

Questa ragionamento, non e’ pero’ sufficiente a spiegare il fenomeno. Se ci pensiamo bene, avendo tanti cristalli esagonali in cielo, ognuno con la sua orientazione, come e’ possibile che venga creata questa forma esattamente circolare? La considerazione e’ corretta, ed infatti quanto detto non e’ ancora sufficiente a spiegare i Sun Dog.

In presenza di cristalli esagonali con orientazione casuale, quello che si forma e’ il fenomeno degli “aloni”, molto meno definiti. Affinche’ si formi un Parhelion e’ necessario che i cristalli siano tutti orientati verticalmente. In questo caso, la luce viene scomposta sullo stesso piano formando appunto queste meravigliose forme di cui abbiamo riportato le foto.

Al contrario di quello che si pensa, i Parhelion non sono cosi’ rari. Affinche’ il fenomeno si formi e’ necessario che, prima di tutto ci siano i cristalli di ghiaccio orientati in modo corretto, ma anche che il Sole sia all’altezza giusta. Geometricamente, quello che si ottiene e’ un angolo di dispersione di 22 gradi rispetto al nostro orizzonte. Ora, molto spesso pero’, questi fenomeni non sono facilmente visibili anche perche’, come vedete dalle foto, per poterli identificare e’ necessario guardare direttamente in direzione del Sole. Detto questo, se il Sole e’ troppo alto in cielo, la sua luce potrebbe arrecare danni alla vista oltre a far diminuire di intensita’ la luce scomposta.

All’inizio dell’articolo, dicevamo che spesso questi fenomeni sono riportati nella storia come presagi divini o segnali del destino. Partendo dai classici greci e latini, le opere sono piene di Parhelion riportati in concomitanza di grandi eventi o di luoghi specifici pregni di significato sociale e religioso. Per darvi qualche esempio, anche Cicerone nel De re publica parla dei Sun Dog ed in particolar modo della discussione nata nel senato romano dopo la comparsa di questi fenomeni. Shakespeare racconta invece nel suo Enrico VI del Parhelion comparso prima di una battaglia nella Guerra delle due Rose.

Concludendo, quello dei Parhelion e’ senza dubbio un fenomeno naturale estremamente affascinante e che, anche se formato in condizioni non rare, molto difficilmente risulta visibile all’occhio umano. Il meccanismo di formazione di questi fenomeni e’ oggi completamente compreso dal punto di vista scientifico ma nel passatto veniva spesso associato con un presagio divino ed importante.

 

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